FIABE - LEGGENDE - SAGHE

         

I miti, le favole, gli aforismi e tutto quel materiale che possiamo ricondurre nel linguaggio metaforico hanno sempre avuto un rilevo fondamentale (non sempre riconosciuto) nello sviluppo culturale dell’umanità. La metafora, oltre alla sua importanza “collettiva”, come materiale di cui è intessuta la nostra psiche, vive e agisce in noi.

La possibilità di utilizzarla a scopo terapeutico è emersa attraverso il lavoro geniale di alcuni autori come Jung, Adler, Desoille, M. Erickson, Bandler e Grinder e altri.

Nel promuovere lo studio e sviluppare la ricerca della metafora in psicoterapia, il Centro H. Ellis propone agli psicoterapeuti che impiegano tale strumento la formazione di un Gruppo di Studio e Ricerca -SHARAZADE- in cui sia possibile riunirsi una volta l’anno per unificare in un lavoro organico le varie esperienze.

Coloro che sono interessati a questo progetto possono inviare una e-mai l . invia

DIO E LE STORIE

 

Quando il gran rabbino Israel Baal-Tov vedeva che la sfortuna minacciava gli ebrei, si recava d’abitudine in una certa parte della foresta a meditare. Lì accendeva un fuoco, pronunciava una preghiera speciale, e il miracolo avveniva e la sventura veniva evitata. Più tardi , quando il suo discepolo, il celebre Magid di Mezritch, dovette intercedere, per la stessa ragione, presso il Signore, andò nello stesso posto della foresta e disse: “Maestro dell’universo, ascolta! Non so come accendere il fuoco, ma sono ancora in grado di pronunciare la preghiera”.

E di nuovo il miracolo avvenne.

Ancor più tardi il rabbino Moshe-Leib di Sasov, per salvare di nuovo il suo popolo, si recò nella foresta e disse: “ Non so come accendere il fuoco,  non conosco la preghiera, ma conosco il luogo e ciò deve essere  sufficiente”. Infine toccò al rabbino Israel di Rizhyn di vincere la sventura. Seduto sulla sua poltrona, la testa affondata nelle mani, egli parlò a Dio: “ Sono incapace di accendere il fuoco e non conosco la preghiera: non posso neppure trovare il posto nella foresta. Tutto ciò che posso fare è raccontare la storia e ciò deve essere sufficiente". Ed era sufficiente. Dio ha creato l’uomo perché Egli adora i racconti. 

 

Eli Wiesel

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ARS NARRANDI

 

Metafore, aneddoti, fiabe

da usare in psicoterapia

 

C’era una volta……

 

Molti e molti anni fa in un regno in riva al mare viveva una fanciulla che potete chiamare con il nome di Annabel Lee.

E.A. Poe

 

Hurlock e Bernstein in un loro articolo(Hurlock e Burnstein: 1983) esaminano un fenomeno comune a molti bambini, quando, tra la prima e la seconda infanzia elaborano la fantasia del compagno immaginario. Verso i quattro-cinque anni il bambino entra in relazione con un compagno immaginario e con questo continua un rapporto di amicizia che talvolta si prolunga sino ad età avanzata. Nel bambino l’esigenza dell’identificazione (fare come l’altro) viene anticipata nella percezione e nel dialogo con un rassicurante compagno. Ancora prima che la razionalità (mundus intellegibilis) operi sugli oggetti trasformandoli, il mondo dell’immaginario (mundus-imaginalis) impone la sua  presenza e un suo linguaggio prevalentemente metaforico, dove, sia il bambino che il suo compagno immaginario si narrano, attraverso storie, la loro visione del mondo. In questo linguaggio non si usano termini di relazione come più o meno, ma piuttosto termini assoluti come grande e piccolo. La concezione dello spazio e del tempo è personale, legata alle cose, e per il bambino, gli oggetti come  le nuvole si muovono da sole. (Langer, 1969). In sostanza il modo di vedere e vivere la realtà di un bambino di cinque anni, sotto l’efflorescenza delle immagini(Casey, 1974) è favolistico: è un “vedere del cuore”.

 

Come afferma Corbin: “ l’immagine non è ciò che si vede, ma il modo in cui si vede”. Questa esperienza immaginale, durante la crescita del bambino, scompare sotto il predominio del Logos, aderente alla legge di non contraddizione e la produzione dell’immaginario si sviluppa solo nei sogni, nell’arte e, in negativo, nella psicopatologia. Eppure, questa presenza interiore, questo daimon, con il quale Socrate conversava, che i Romani chiamavano genius, evoca, insieme ad altre immagini archetipi un mondo metaforico, parallelo, che intesse con quello esterno fenomenico, interpretato dal Logos, misconosciuti rapporti di complementarietà. Ma il Logos è come un faro nella notte, che crede  la sola realtà quella delimitata dalla sua luce.

 

La psicoterapia, pur sperimentando il confine tra luce e ombra, privilegia il predominio del Logos. Il paziente, durante la terapia, racconta una sua storia, confusa, frammentaria, senza senso, dominata dal pathos. Il terapeuta ritesse la storia, definisce la trama e la trasforma in un’altra più convincente e utile ai fini adattivi di quella che il paziente era abituato a costruire (Schafer, 1983); ma soprattutto dà un senso al caos delle emozioni e all’estraneamento causato dalla sofferenza. Il Logos, tuttavia, usa un linguaggio che , “esigendo un prima e un poi, un soggetto e un oggetto, nel senso di colui che fa l’azione e di colui che la subisce, comporta un postulato di causa ed effetto e di conseguenza una definizione moralistica” (Selvini Palazzolo:1975). Il terapeuta, nelle storie dei pazienti, diventa uno psicoinvestigatore a caccia di colpevoli seguendo le tracce di traumi e indizi nel passato: “ ad ogni paziente con l’aiuto dell’analista, è dato di costruirsi, un proprio romanzo psichiatrico, a proprio uso e consumo” (Fara, Cundo: 1981).  Il paziente, dominato dal sintomo, vive storie confuse, banali, ripetitive in cui non si sente protagonista della sua vita. Tuttavia l’essere inseriti in una trama dotata di senso e finalità (l’essere persi nel mondo si trasforma nell’essere stati gettati nel mondo) produce il cambiamento terapeutico.

Questo, però non basta a produrre un cambiamento definitivo perché manca l’incidenza di un linguaggio che operi direttamente nell’immaginatio. Una terapia riuscita è una collaborazione tra narrazioni di una trama  immaginativa, che implichi il senso del mythos, perché: “un trauma non è un evento patologico ma un’immagine patologizzata, un’immagine divenuta intollerabile”. (Hillman,1983,21-22). Occorre dunque interpretare e ri-narrare le storie del paziente nelle forme linguistiche più vicine al loro primogenio modo di essere, cioè utilizzando il linguaggio colorito della metafora. In sostanza si tratta di ri-narrare una storia che ricalchi il suo problema principale e, inserire in questa,attraverso più metafore, incastrate le une nelle altre, come le bamboline russe matrioska, le aree della  della personalità del paziente, intaccate dal disturbo sessuale, lasciando un finale “aperto”, in modo che egli possa scegliere, seguendo la sua “mappa interna” per semplificare questo approccio riferisco un caso di vaginismo, in cui l’uso della metafora ha avuto un’importanza fondamentale.

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RITA FUGIENS

 

"mutato nomine de te fabula narratur" (Orazio)

 

Rita ha 32 anni; insegnante di matematica in un liceo, è stata allevata dalla madre. Il padre, prima della nascita di Rita, ha lasciato la famiglia e si è risposato, disinteressandosi completamente della figlia. La madre ha trasmesso la frustrazione dell’abbandono e la rivalsa sul maschile alla figlia, la quale, esasperando il suo lato maschile (animus), ha sempre attuato una continua competizione con gli uomini. Rita ha sempre “preso” e abbandonato i suoi partners, come il padre ha abbandonato la madre, con il pretesto di non poter instaurare un dialogo (“io sono più intelligente”).Nei rapporti sessuali accetta le variazioni, predilige il coito orale , ma non vuole essere penetrata poiché accusa dolori lancinanti alla vagina dl momento della penetrazione. La storia di Rita mi ricorda il mito di Atalanta, la vergine cacciatrice devota ad Artemide, abbandonata dal padre Iaso, deluso nelle aspettative di avere un figlio maschio e allevata dai pastori.

Atalanta accetta la competizione con gli uomini, ponendosi come premio in una gara di velocità. Se l’uomo riuscirà a raggiungerla prima del traguardo stabilito, sarà sua, se non riesce, Atalanta avrà il diritto di ucciderlo. Nelle prime sedute Rita mi mostra la sua competenza. ha letto Freud, Jung…Master e Johnson e la Kaplan. Nel suo rapporto transferale, come Atalanta, sta già correndo avanti. Deludendo le sue attese comincio a parlarle delle Mille e una notte, della traduzione di Galland e Burton. Il mio scopo è quello di usare il suo Logos per meglio accedere al suo immaginario.

Parlando sempre di favole, le propongo di raccontarmi, nella prossima seduta, l’inizio di una sua favola, esponendole chiaramente le finalità proiettive. Rita entra nel meccanismo della competizione e accetta: “ti faccio vedere come sono brava”. nella seduta seguente, Rita inizia la sua favola con la descrizione di un bellissimo castello dove abita una principessa felice, la quale, dai torrioni del castello , vede una valle verde e serena.

Le dico che da una donna intelligente come lei mi attendevo una fiaba molto  più precisa, più dettagliata e perciò le faccio rivivere la sua fiaba chiedendole particolari sull’architettura del castello, sul colore dei merli, sull’arredamento delle stanze, sul vestito della principessa. Così, nel corso di più sedute, scopro che il castello è cupo e desolato, la valle è deprimente e disseminata di incendi e la principessa non può scendere ai piani inferiori perché una governante dall’aria severa ne impedisce l’accesso. Oltre alla governante, solo il buffone di corte tiene compagnia alla principessa: il castello è pieno di cose non di persone. Propongo alla principessa di iniziare a scendere in basso , perché è giusto che conosca il suo castello.

Rita mi dice che la principessa vorrebbe scendere, ma ha paura del buio che alberga nelle stanze inferiori. Suggerisco di aprire le finestre . Accompagno la discesa con dei compiti (homeworks) che Rita può svolgere a casa e che riguardano la conoscenza e la consapevolezza del suo corpo. Con il partner suggerisco rapporti improntati alla focalizzazione sensoriale e preliminari con carezze e verbalizzazione delle sensazioni suscitate. Dopo cinque sedute la principessa si trova sbarrata la discesa dalla governante, una donna alta, massiccia, vestita di grigio con mani adunche . Con difficoltà si stabilisce un dialogo e si ricercano le intenzioni della governante  (che è chiaramente una figura genitoriale). Questa non vuole che la principessa scenda in basso perché si sporcherebbe tutta . Prendendo spunto dalle frasi che la governante usa rivolgendosi alla principessa, attraverso Rita, secondo le modalità dell’immaginazione attiva,chiedo alla governante quale sia l’età della principessa.

La risposta è: “ ha otto anni”. Rita, molto turbata, si inserisce nella conversazione e afferma decisa che ha 32 anni. Alfine la governante cede e lascia libero il passo a patto che la principessa si fermi davanti al portone del castello. In questa discesa, Rita vive il suo disturbo sessuale attraverso un viaggio interiore (che ricorda il ciclo dell’eroe di Campbell) nel suo immaginario.

 

Il terapeuta non dà interpretazioni sulle metafore che suggerisce e sui simboli che compaiono, ma si pone come guida che interviene direttamente nel viaggio del paziente, sia sollecitandolo a continuare il viaggio , nei momenti di difficoltà, sia suggerendo i comportamenti da adottare  nel viaggio.

La porta del castello rappresenta la chiusura verso l’esterno, la paura dell’aggressione maschile proiettata al di fuori. Suggerisco a Rita di guardare attraverso una feritoia. All’esterno, davanti al castello, ci sono vari personaggi in attesa, che Rita giudica poco rassicuranti. Introduco nella storia un menestrello, il quale si avvicina alla feritoia , dove Rita sta guardando, e canta tre storie. La prima è tratta dalla fiaba del “Gigante egoista” e sviluppa il concetto che è più importante avere amici che cose.

La seconda parla di un’ostrica, la quale , per la conformazione del guscio, impedisce agli agenti esterni pericolosi di penetrare ma , nel contempo si priva anche della possibilità di accogliere cose buone dall’esterno (non ti accade niente di cattivo ma neanche niente di buono, il risultato raggiunto non è quello di stare bene , ma solo quello di non stare male).

La terza storia è un aforisma zen sulla necessità di lasciarsi andare per affrontare meglio i pesi della vita (la neve si ammucchia sui rami: quelli più rigidi si spezzano sotto il peso della neve, quelli più elastici si flettono e lasciano cadere la neve). Dopo queste storie , la principessa decide che chi vorrà entrare nel castello dovrà annunciarsi e dimostrare le sue buone intenzioni. Suggerisco che i visitatori lascino un piccolo dono e che, per far entrare questo , la porta si socchiuda di pochi centimetri. Il primo dono accettato è un grazioso batuffolo di cotone azzurro. Nelle sedute seguenti, il processo terapeutico si accentua sulla corrispondenza tra la metafora della lenta e contrattata apertura della porta del castello e il rilassamento dei muscoli vaginali di Rita. In questa fase è importante mantenere l’aggancio tra la metafora e il sintomo sessuale, in modo che l’operare nell’immaginario abbia un’equivalenza nel corporeo.

Nel caso di Rita ho solo accennato, per motivi di spazio, alle componenti della metafora che più hanno attinenza con la risoluzione del sintomo sessuale. In realtà, l’immaginario copre a reticolo il vissuto della paziente e investe totalmente il suo comportamento. Il vaginismo di Rita è solo la punta di un iceberg, che ha radici nel rapporto con la madre e il fantasma del padre e trova sbocco nel sintomo che più coinvolge un rapporto intimo, quello sessuale.

Quando finalmente il portone del castello si schiude, Rita riesce ad accogliere il suo uomo, cioè ad avere un rapporto completo soddisfacente.

Il suo vaginismo dunque è risolto, ma la terapia continua nel suo rapporto con il maschile. Infatti rifiuta l’uomo che si era scelta e decide di sviluppare le sue relazioni non più come scontri ma come incontri e scambio di esperienze. L’analisi continua e anche il viaggio interiore di Rita, che dopo aver esplorato il suo castello e aperto il portone agli amici affronta i bui sotterranei e le segrete, dove incontra, come in ogni castello che si rispetti, il fantasma del padre che non ha mai perdonato.

 

Andrea Dacrema (tratto da : Andrea Dacrema- Percorsi dell’eros- Managò editore.1987)

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Bibliografia

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